(Adnkronos) - ''Auspico che ci sia maggiore flessibilità sull'approccio ai documenti perché vi assicuro che è molto, molto complicato lavorare negli archivi. Io per tirare fuori i documenti riguardanti l'attentato alla Sinagoga di Roma ho ricevuto anche minacce. Ma il lavoro di un ricercatore o di uno storico è quello di andare avanti. Certo è gran fatica. Sento la mancanza di un ente di ricerca che sia anche di appoggio. Non sempre l'università basta''. Lo ha detto la ricercatrice Giordana Terracina intervenendo al convegno 'Milano, Brescia, Bologna: quale verità storica sulle stragi', promosso dal periodico Realtà Nuova, che si è tenuto nella sala conferenze della Fondazione Alleanza Nazionale a Roma. A moderare l’incontro, che ha visto i saluti introduttivi del presidente della Fondazione An Giuseppe Valentino e del senatore Domenico Gramazio, direttore della testata Realtà Nuova, il direttore dell’Adnkronos Gian Marco Chiocci. ''Mi hanno detto di non interessarmi alla questione del lodo e gentilmente ricordato che ho un figlio e che avrei fatto bene a occuparmi di altro'', ha spiegato Terracina a proposito delle minacce. E poi, sollecitata da Chiocci, ha aggiunto: "Io nasco come ricercatrice della Shoah, ho lavorato alla fondazione della Shoah di Roma, mi occupavo di mostre e ricercavo i documenti per allestire delle mostre. Ho iniziato così a interessarmi alla questione: ho studiato le origini del nazionalismo e del panislamismo arabo legate alla figura del Gran Mufti' di Gerusalemme e da lì, filo dopo filo, sono arrivata al nazionalismo arabo nei tempi moderni". Così la ricercatrice è incappata nel lodo Moro, ovvero quegli accordi clandestini che sarebbero stati stretti negli anni '70 dall'Italia con i principali artefici del terrorismo mediorientale, in base al quale questi si sarebbero astenuti da attacchi contro il nostro Paese in cambio di libertà di movimento e possibilità di trasportare armi, tema di cui si è occupata anche insieme al ricercatore Gabriele Paradisi. Ha fatto riferimento al lodo Moro anche l’avvocato Valerio Cutonilli, autore con il giudice Rosario Priore de 'I segreti di Bologna', il saggio che ha per primo ipotizzato il giallo di un'86esima vittima dell'attentato alla stazione. Cutonilli ha ricordato che ''c'è un fonogramma della polizia, che, 22 o 23 giorni prima, lanciava un allarme su un possibile attentato da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, che non è certo una prova ma che curiosamente - ha detto - non arriva nei fascicoli dell'istruttoria bolognese. Noi lo scopriremo solo tre decenni dopo''. ''Io ho il fonogramma del questore di Bologna datato 2 agosto, con le macerie della stazione che fumavano ancora, con una pacifica ammissione di assenza di elementi indiziari che consentivano di assegnare a un'area politica questo terribile attentato... Eppure - ha osservato - il questore, scrivendo a tutti i suoi parigrado delle questure italiane, chiede di indagare su tutte e soltanto sulle organizzazioni di estrema destra. Sono scelte investigative che non hanno logica e si spiegano solo con una scelta politicamente assunta in modo aprioristico e finalizzata a cercare una verità che sia indolore'', ha poi aggiunto. Danilo Coppe, perito nel recente processo contro Gilberto Cavallini (poi condannato come quarto esecutore), ha spiegato che "il quesito che mi fu posto dalla Corte d'Assise di Bologna era non solo legato a stabilire la natura dell'esplosivo usato alla stazione ma anche a trovare correlazioni con le altre stragi e perciò ho avuto accesso agli atti che riguardavano tutto il periodo degli anni di piombo. Insieme al colonnello Gregori del Racis abbiamo convenuto che effettivamente quasi tutte le perizie tecniche di quegli anni erano fortemente viziate da errori. L'idea che ci siamo fatti è che non c'è nessun filo conduttore nella metodologia costitutiva degli ordigni e poi ci siamo domandati perché in alcuni casi si trovava succo di mela e si riportava che era succo di pera... Viene da pensare male sotto l'aspetto di depistaggio ma in realtà noi abbiamo più riscontrato degli errori macroscopici di metodo. Non c'è un filo conduttore nella tipologia degli esplosivi''. ''Certe cose vengono completamente ignorate - ha detto ancora il perito - come le risultanze che sono arrivate da Bologna, dove le quantità di esplosivo erano la metà, e quindi era possibile un bagaglio trasportabile anche da una donna. O che la famosa Maria Fresu non era la vera Maria Fresu. Insomma, c'erano tanti elementi che mi aspettavo avessero un'influenza maggiore, ma questo non è stato''. Sempre sul tema dell'esplosivo lo scrittore Francesco Rovella ha sottolineato che "basterebbe guardare alla provenienza dell'esplosivo per capire molte cose. Come Falcone diceva seguite i soldi io dico: seguite l'esplosivo". Dal giornalista Andrea Colombo, storica firma del Manifesto e autore tra l'altro di "Storia nera", sulla strage di Bologna, è arrivata la richiesta di "desecretare gli archivi Giovannone", l'ex capocentro del Sismi a Beirut, nelle cui carte ci sarebbero rivelazioni importanti sul lodo Moro. Sulle stragi e gli anni di piombo, nell'opinione pubblica, "una narrazione bugiarda ha sostituito la verità effettiva" e a oggi, "solo un ampio movimento di opinione potrebbe chiedere la verità su Bologna", ha sottolineato Colombo, spiegando, come, tuttavia, su questo fronte, complice l'ideologia e qualche errore anche della destra, sia stato fatto "un enorme passo indietro rispetto agli anni '90", quando tanti intellettuali anche di sinistra si sono battuti per fare piena luce sulla strage del 2 agosto 1980. "Rossana Rossanda è stata la prima a chiedere la verità su Bologna", ha ricordato Colombo, che non ha mai creduto alla colpevolezza di Mambro e Fioravanti. "E' la ricerca di una verità storica che oramai va portata avanti - ha aggiunto -... tanto che chi ha fatto davvero la strage vada in galera magari a 90 anni non interessa a nessuno". Bisogna invece far emergere che "tutta la vicenda delle stragi è stata raccontata secondo una narrazione viziata, che parte dall'idea che ci sia una continuità... una stessa mano o matrice. E questo andrebbe demistificato", perché "se ti arriva una versione completamente falsa del passato non puoi fare i conti col presente e tanto meno col futuro". A riportare all'oggi il dibattito ci ha pensato il direttore del Riformista Piero Sansonetti che, facendo riferimento al recente servizio messo in onda da Report sulla strage di Capaci, nel quale si adombrava il sospetto di una 'pista nera' citando la presunta presenza sul posto nei giorni immediatamente precedenti del defunto fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie, ha sottolineato: ''Il servizio che è stato definito un depistaggio dalla procura di Caltanissetta è stato mandato in onda dalla Rai e nessuno si è indignato. La commissione di vigilanza cosa ha detto? Nessuno se ne è occupato, i giornali non se ne sono occupati, è un caso clamoroso. Vogliamo chiedere che sia fatta una trasmissione di riparazione?'', la proposta di Sansonetti.
(Adnkronos) - Uno sguardo verso il futuro del mercato del lavoro, ripartendo dalle indicazioni del Jobs Act. E' il messaggio che arriva dalla presentazione dell'ultimo libro, 'Jobs Act forever' (ed. Rubbettino), del giuslavorista e avvocato Francesco Rotondi, founder dello studio LabLaw, tenutasi ieri pomeriggio al Palazzo dell'Informazione Adnkronos a Roma. "Credo che conoscere il passato e confrontarsi -ha detto Rotondi- con esso sia necessario per costruire il futuro. L'idea di scrivere il libro mi è venuto mentre concludevo il precedente, con le interviste ai ministri del Lavoro degli ultimi 20 anni. E' in questo arco di tempo il Jobs act è l'unico tentativo di riforma dell'intero sistema e non solo del diritto del lavoro. E credo che è stata la più grande occasione di riforma degli ultimi 50 anni". "Dal confronto di oggi emerge una prospettiva, che va perseguita", ha sottolineato Rotondi che ha rimarcato come "dobbiamo guardare al complesso normativo senza immaginare rigidità. Nel Jobs act c'era già tutto, dobbiamo riprendere quella strada". Un concetto condiviso dalle imprese, con Massimo Marchetti, area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria che ha sottolineato come "il Jobs act" avesse "una visione del futuro del mondo del lavoro, oggi interventi ci sono interventi frammentati, con un livello tecnico molto basso. Nel Jobs act invece troviamo un livello tecnico molto elevato", ha aggiunto ancora. E Maurizio Del Conte, giuslavorista e tra i 'padri' del Jobs Act ha sottolineato che nel provvedimento "c'ho messo l'anima, c'era un'idea di lavoro, un'operazione di ricomposizione del quadro. E' stato un lavoro certosino quello che abbiamo fatto e se si parla di Jobs act oggi si parla della legge fondamentale del lavoro anche se alcune modifiche sono state fatte", ha sottolineato l'ex-presidente dell'Anpal. Per Del Conte se c'è una cosa che nel Jobs Act non ha funzionato "sono le politiche attive, non si possono riformare i servizi per l'impiego a invarianza di spesa". Per Nicola De Marinis, consigliere presso la Corte di Cassazione, sezione Lavoro "ci troviamo in un contesto sfidante, in cui, provocatoriamente, possiamo dire che il lavoro è tornato ad essere una merce, e in cui quindi è centrale la qualità del lavoro stessa", ha spiegato. Per De Marinis "la discussione sul lavoro agile è la discussione sul lavoro del futuro". E per De Marinis non ci si può fermare "a guardare al passato, anche sotto il punto di vista della normativa del lavoro. Dobbiamo traguardare il futuro, e nel Jobs Act c'era già tutto per farlo, come si legge anche nel libro". Secondo Nicola Marongiu, coordinatore area contrattazione e mercato del lavoro della Cgil "il giudizio sul Job act della nostra organizzazione vedeva positivamente alcuni aspetti che si confermati tali e individuava delle criticità che anch'esse sono rimaste invariate, come ad esempio il finanziamento delle politiche attive. Per quanto riguarda l'articolo 18 noi non lo abbiamo mai considerato un 'totem' ma qualcosa di pratico", ha concluso.
(Adnkronos) - Biodiversità europea sempre più a rischio. E’ quanto emerge da un dossier Eurostat sui progressi europei nello sviluppo sostenibile, che sottolinea come per per il 63% delle specie e l’81% degli habitat, lo stato di conservazione sia “povero” e come solo una quota davvero minoritaria mostri tendenze al miglioramento (rispettivamente 6% delle specie e 9% degli habitat). La causa principale è l’aumento della pressione antropica causata dall’urbanizzazione e dall’agricoltura. Basta vedere che cosa è successo alle farfalle, considerate un ottimo indicatore di biodiversità, che secondo il report hanno subito un declino di oltre il 25% tra il 1991 e il 2018.